Nel contesto mondiale di pandemia di Covid-19, siamo sottoposti a messaggi più o meno unificati, che si declinano diversamente a seconda dei dispositivi e delle logiche nazionali. L’11 marzo, quando l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) dichiarava “pandemia mondiale”, io, ricercatrice italiana residente in Svizzera, ero appena atterrata a Florianopolis, in Brasile. Dovevo iniziare una ricerca di sei mesi al Dipartimento di Antropologia, all’Università Federale di Santa Catarina, ed ecco che mi trovo di fronte alla sospensione delle attività scientifiche, sociali e collettive dell’intero del paese. Non esattamente. Mentre in Italia, mio padre mi spiega che, dal 23 febbraio, tutti restano isolati in casa con restrizioni ogni settimana più severe, l’annuncio della pandemia in Brasile arriva in un eco fratturato, tra lo scherno del Presidente, Jair Bolsonaro, che invoca “l’isteria per una piccola influenza” e l’ortodossia di una morale igienica difesa da scientifici ed esperti in salute pubblica, consapevoli che il paese non sarà in grado di assorbire una crisi sanitaria di questo tipo. Di fronte alle contraddizioni trasmesse dai media e alla discrepanza delle sensibilità politiche riguardo alle priorità collettive in un paese dove le disuguaglianze sono estreme, mi ritrovo inizialmente confinata per cinque giorni, che diventano in seguito quattordici. Come “straniera” sono messa in quarantena. Praticamente, non metterò mai piede all’università, se non per scoprire che gli uffici sono chiusi.
Lire la suite sur le Blog L'Osservatorio etnografico sulla giusta distanza creato dal Dipartimento di Antropologia dell'Università di Milano Bicocca (disponible en plusieurs langues)
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